Il dolore è una sensazione soggettiva che può essere influenzata da fattori sensoriali, affettivi e cognitivi.
Il dolore cronico può avere un impatto diffuso sulla funzione cerebrale complessiva, e sia i fattori cognitivi che psicologici svolgono un ruolo chiave nello sviluppo e nella gestione del dolore.
I pazienti con dolore a lungo termine presentano spesso menomazioni strutturali ed emotive associate a regioni corticali del cervello che sono collegate non solo al dolore stesso, ma anche alle molte comorbidità che spesso si sviluppano in associazione con il dolore cronico: depressione, ansia e disturbi del sonno, per esempio.
I pazienti con dolore cronico possono richiedere un trattamento farmacologico a lungo termine; ciò comporta una serie di inconvenienti dovuti principalmente agli effetti collaterali indesiderati che spesso insorgono con l’uso continuato di farmaci analgesici.
Esiste una costante ricerca di migliori opzioni di gestione del dolore, compresi gli approcci non farmacologici.
Negli ultimi decenni, il neurofeedback ha guadagnato terreno come opzione potenzialmente valida.
Il neurofeedback è una forma di biofeedback. Il biofeedback è nato dall’osservazione che si possono controllare e manipolare determinate funzioni corporee attraverso la consapevolezza.
Usando strumenti che misurano l’attività fisiologica come il battito cardiaco, la respirazione, l’attività muscolare o la temperatura della pelle, un soggetto può ricevere informazioni rapide e accurate su tali funzioni.
L’uso di questi sistemi di monitoraggio consente la percezione delle funzioni fisiologiche e, a sua volta, insieme ai cambiamenti nel pensiero, nelle emozioni e nel comportamento, ciò consente la manipolazione di tali funzioni.
Il biofeedback è ampiamente applicato ai processi associati al sistema nervoso autonomo, come frequenza cardiaca, frequenza respiratoria o tono muscolare.
Il biofeedback può essere usato per controllare quei processi e per migliorare la salute e le prestazioni fisiche. Nel tempo, questi cambiamenti possono durare a lungo, resistendo anche senza l’uso continuato di strumenti di monitoraggio.
Nel caso del neurofeedback, queste tecniche di biofeedback sono applicate al cervello.
Il neurofeedback, conosciuto anche come EEG-biofeedback, utilizza elettroncefalogrammi per monitorare le onde cerebrali, producendo un segnale che può essere utilizzato come feedback per apprendere ad autoregolare le funzioni cerebrali.
Ultimamente, sono state applicate altre tecniche di monitoraggio, vale a dire il biofeedback della risonanza magnetica funzionale (fMRI).
È noto da decenni che, con un allenamento adeguato, le onde cerebrali possono essere controllate.
L’attività intellettuale induce fluttuazioni nell’attività bioelettrica cerebrale che può tradursi in cambiamenti neurofisiologici.
Comprendendo l’associazione tra l’attività bioelettrica di diverse aree cerebrali ed i processi cognitivi, emotivi, comportamentali o anche patologici associati, il neurofeedback può consentire la modifica di quei processi specifici.
Il neurofeedback si è dimostrato utile nell’indurre il rilassamento e l’attenzione, nel potenziare la creatività e come terapia per numerose patologie: disturbi del sonno, epilessia, depressione, ansia, elaborazione del linguaggio, neuro-riabilitazione in ictus o miglioramento della percezione e dell’apprendimento.
Un altro contesto in cui il neurofeedback ha mostrato effetti interessanti è il dolore cronico.
Il neurofeedback può avere un’influenza diretta sull’elaborazione del dolore. Apprendendo l’autoregolazione delle funzioni cerebrali, un paziente può modificare l’attività elettrica delle aree del cervello coinvolte nell’elaborazione del dolore, nella percezione del dolore o nella memoria del dolore.
Ciò consente, ad esempio, la riduzione o addirittura l’eliminazione del dolore, insieme a molte delle sue comorbilità, tra cui depressione e ansia.
I fattori psicologici che influenzano la percezione del dolore hanno la capacità di modificare i processi biochimici del nostro corpo.
I pensieri possono avere un impatto diretto su questi processi e potenzialmente produrre analgesia; infatti, ci sono prove che indicano che il controllo cognitivo del dolore può avere un effetto diretto sull’attività dell’oppio, stimolando la produzione di endorfine.
Un altro meccanismo attraverso il quale il neurofeedback può modulare il dolore è la regolazione della componente emotiva del dolore.
La corteccia frontale è associata alla sensazione di spiacevolezza associata al dolore e l’utilizzo del neurofeedback applicato a questa regione del cervello ha dimostrato di essere in grado di indurre cambiamenti nell’affettività del dolore in pazienti con sindromi dolorose acute e croniche, portando ad un aumento della tolleranza al dolore.
Il dolore cronico può anche indurre cambiamenti nell’organizzazione funzionale del cervello.
Il neurofeedback può consentire il controllo del dolore alterando la connettività tra le regioni del cervello, inducendo in tal modo cambiamenti duraturi nelle reti neuronali che possono controbilanciare i cambiamenti indotti dal dolore cronico.
Infatti, i dati clinici hanno dimostrato l’efficacia della terapia del neurofeedback in un certo numero di condizioni di dolore cronico: può ridurre l’intensità del mal di testa, essendo particolarmente efficace nei bambini e negli adolescenti, così come l’emicrania ed il dolore associato alla fibromialgia.
Il neurofeedback può anche essere efficace nel dolore post-operatorio e nel dolore oncologico.
Negli ultimi decenni, gli approcci ed i protocolli di training sul neurofeedback sono stati costantemente migliorati, insieme alla sua efficacia.
Quando insorgono nuovi metodi, è probabile che il neurofeedback possa acquisire consapevolezza ed importanza come terapia non farmacologica per una moltitudine di disturbi.
La risonanza magnetica funzionale, ad esempio, può essere un ottimo aggiornamento per questa terapia consentendo il rilevamento di aree cerebrali affette da dolore cronico e consentendo di conseguenza un intervento più mirato.
Se si può imparare a controllare direttamente l’attivazione di specifiche regioni del cervello, si può potenzialmente essere in grado di controllare i meccanismi neurofisiologici che possono aiutare nel trattamento della malattia.
A cura della Dottoressa Giorgia Lauro
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